Davide D’Errico e Il Vicolo della Cultura: La Rinascita di Napoli dal Rione Sanità
Napoli è oggi una meta turistica di primo piano, ma dietro il suo successo c’è la storia di chi ha lavorato per la sua rinascita partendo dai luoghi più difficili. A Newzgen, Andrea Eusebio e Alessandra D’Ippolito hanno intervistato Davide D’Errico, co-fondatore de “Il Vicolo della Cultura”, per raccontare la genesi e le sfide di un progetto nato dal basso nel cuore del Rione Sanità.
Andrea: Davide, buon pomeriggio e benvenuto su Newzgen. Oggi è facile raccontare una Napoli in cima alle classifiche turistiche, ma voi siete partiti da un po’ più lontano, sette anni fa, con “Il Vicolo della Cultura”. Come era la situazione allora?
Davide D’Errico: Grazie dell’invito. Sette anni fa, il Rione Sanità era sulle pagine della cronaca nera, un territorio difficile. Oggi è esploso con il turismo: puoi visitare una chiesa dipinta di blu, il museo di Iago, le catacombe di San Gennaro. È un quartiere magico che ha dato i natali a Totò, ma fino a poco tempo fa era abbandonato. Noi siamo entrati in due beni confiscati alla camorra in Vico Montesilvano. Erano luoghi distrutti, pieni di scarafaggi e con servizi rotti. Abbiamo trovato ogni tipo di divinità lasciate da famiglie immigrate. Non è stato un bell’inizio, ma ha dimostrato che anche nei luoghi bui, dove nessuno scommetterebbe, il cambiamento è possibile e c’è bellezza da riscoprire.
Alessandra: Qual è stata la reazione dei napoletani e degli abitanti del Rione Sanità quando avete iniziato?
Davide D’Errico: Ci hanno guardato con grande sospetto. Ricordo un bambino che ci chiamava “ladri”, poi ho capito che era un parente del signore a cui erano stati confiscati i beni. La cosa bella è che quel bambino, con molti altri, oggi partecipa a corsi gratuiti di recitazione e scenografia. Non avendo spazi, abbiamo inventato il “teatro dai balconi”: i balconi sono diventati il nostro palcoscenico e la scenografia era per strada. Ricordo persone che non erano mai andate a teatro affacciarsi dai balconi con i bambini in braccio, assistendo alla magia dell’arte. Per una sera, quel luogo abbandonato si è trasformato in un importante teatro, mostrando la magia della cultura.
Andrea: Tu avevi solo due anni quando tuo nonno fu ucciso dalla camorra per aver detto “no” al pizzo. Quell’episodio ti ha segnato profondamente. Da dove nasce l’idea de “Il Vicolo della Cultura” per Davide D’Errico? Qual è stata la genesi di questo progetto?
Davide D’Errico: Mio nonno mi ha insegnato due cose: davanti alle ingiustizie non bastano le parole, bisogna agire, “metterci la pancia”. E che le mafie si arricchiscono sul lavoro onesto, imbruttiscono i territori. Crescendo, sentivo il bisogno di onorare la sua memoria. Anni dopo, con un bando del Comune di Napoli per beni confiscati, decidemmo di partecipare con un gruppo di associazioni. Eravamo ventenni, ingenui, senza soldi né competenze, ma credevamo che con una grande idea e una comunità si potessero cambiare le cose. Lanciammo una campagna, “€2 a piacere contro la camorra”, raccontando per la prima volta la storia di mio nonno. Non cercavamo un grande donatore, ma tanti piccoli. Realizzammo il sogno, diventando il progetto con più donatori nella storia del Banco di Napoli. Non solo recuperammo i beni, ma anche l’intero vicolo, capendo che il cambiamento è reale solo se il luogo diventa accogliente. Simbolicamente, togliemmo spazio all’incuria e alla camorra, e avvenne il miracolo: le persone si riappropriarono del loro posto, orgogliose.
Alessandra: Da un singolo vicolo, il vostro progetto si è esteso. Quanti “vicoli della cultura” ci sono oggi a Napoli e qual è il principio dietro la loro valorizzazione?
Davide D’Errico: “Il Vicolo della Cultura” è diventato un progetto di rigenerazione urbana su base culturale. Attualmente ne esistono tre a Napoli, e stiamo lavorando al quarto che nascerà in provincia il prossimo anno. L’idea è scommettere sui luoghi dimenticati, adattando il modello alla loro storia. Il secondo vicolo, per esempio, si chiama “Donna Regina” ed è dedicato alle donne che hanno ispirato il cambiamento, da Frida Kahlo ad Artemisia Gentileschi. Non è solo un vicolo della cultura, ma un luogo che celebra la vocazione femminile. Vogliamo creare vicoli con street art, edicole con libri gratuiti e, soprattutto, che valorizzino la cultura locale. Non abbiamo inventato nulla: nel ‘700 a Napoli, Padre Gregorio Rocco, per combattere le truffe nei vicoli, mise lampade a olio davanti alle immagini della Madonna, così i ladri non osavano rubarle. Napoli si illuminò, e in qualche modo avevano già inventato i “vicoli della cultura”.
Andrea: Napoli sta vivendo un boom turistico. Dal tuo punto di osservazione privilegiato, al di là della narrativa istituzionale, come vedi l’evoluzione della città? C’è più consapevolezza o il lavoro è ancora tanto?
Davide D’Errico: Napoli vive un boom turistico con le sue contraddizioni. Il turismo porta economia, ma anche problemi. Il caro affitti è enorme: è quasi impossibile per i giovani vivere nel centro storico, ci sono più BNB che case abitate. Temo che una narrativa troppo positiva sul turismo nasconda fragilità. Se una città perde i suoi cittadini, i suoi giovani, rischia di svuotarsi della sua vita e riempirsi di “plastica”, qualcosa di bello ma finto. La vera bellezza di Napoli è il suo centro storico popolare, dove senti il profumo del ragù, trovi artigianato autentico, la Napoli sotterranea. Temo che questa Napoli possa soccombere. C’è anche un enorme problema giovani: non solo la fuga di cervelli, ma la percezione che le realtà vivaci dal basso siano un fastidio anziché un’opportunità. Sembra che l’attenzione sia solo sui grandi finanziamenti e player.
Alessandra: Questo approccio delle istituzioni è frustrante? Come lo percepisci?
Davide D’Errico: Non riguarda solo la nostra iniziativa, ma tutte le piccole realtà dal basso. Credo che dopo il Covid, quando si parlava del “tempo dei giovani”, si pensava a un nuovo mondo. Invece, il mondo è andato in retromarcia. I leader mondiali sono spesso over 70, e c’è una chiusura verso le nuove generazioni. Questo si riflette nelle nostre città, specialmente al Sud. È fastidioso percepire quasi un “ronzio” da queste iniziative giovanili. C’è un fare paternalistico: “Bello, carino, hai fatto il vicoletto.” Ma si continua a investire solo nelle grandi aziende, nelle multinazionali. Bisognerebbe dare lo stesso peso a chi parte dal nulla, a chi vuole sbagliare per imparare. Se non si scommette su queste realtà, si rischia di perdere l’identità del territorio.
Andrea: Nonostante le difficoltà, percepite ancora la voglia dei giovani di impegnarsi, di fare qui, a casa loro?
Davide D’Errico: Assolutamente sì. C’è un grande attivismo da parte dei ragazzi, ma non credono più che questo attivismo possa trasformare le città attraverso la politica o la democrazia tradizionale. C’è un grande distacco: i giovani credono che sia possibile cambiare, si impegnano, creano startup, fanno volontariato. C’è tantissimo fermento, lo vivo ogni giorno. Però, non credono che questi cambiamenti possano passare dalle istituzioni. Questo è il nostro più grande limite. La nostra generazione rinuncia alla sfida di cambiare le cose con la politica. Dobbiamo “contagiare” la politica con novità e prospettive nuove, altrimenti avremo sempre una classe dirigente che si crogiola in battaglie personali. Dobbiamo avere il coraggio di dire: “Forse con le spade non ci siete riusciti, ma con una fionda, simbolo di innovazione e creatività, possiamo farcela. Dateci una chance.” Il rischio è rimanere solo dei begli esempi, senza riuscire a contagiare i processi decisionali.
Alessandra: Tu parli di un sistema incancrenito, non solo politico. La politica, come garante del territorio e delle economie, sembra non essere più lo strumento che i giovani vedono come accelerante per i processi. Ti viene in mente l’esempio di Jeff Bezos a Venezia: eventi come questi, dove grandi nomi “affittano” la città, generano polemiche. Se le istituzioni fossero più attente alla creatività del territorio, saremmo più aperti a tali iniziative?
Davide D’Errico: Mi hai fatto venire in mente un libro di un mio caro amico, Antonio Minna: “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli”. Il problema non è Jeff Bezos, ma perché non nascono “Jeff Bezos” in Italia? Non siamo stupidi o incapaci. Il problema è un sistema incancrenito: produttivo, urbano. Se questi grandi innovatori sono nati in America e non in Italia, un motivo c’è. Dobbiamo creare una società dove le idee innovative possano fallire. Sui social vediamo vite sempre perfette, ma la vita vera è fatta di fallimenti. Molti ragazzi hanno grandi idealità, ma crollano al primo insuccesso, senza capire che il fallimento è parte del processo. Non puoi avere successo senza fallire. “Lasciateci fallire” può essere lo slogan della nostra generazione. Significa “lasciateci provare, innovare, sbagliare”, per contribuire a innovare la nostra società.